Non solo generosità, la donazione è uno scambio sociale

Le organizzazioni del Terzo settore contribuiscono alla generazione di benessere nella nostra società attraverso la produzione di beni e servizi di interesse generale, attivati, nella maggior parte dei casi, grazie a iniziative e processi di raccolta fondi. Infatti, al contrario di un’impresa for profit – dove il soddisfacimento dei bisogni di un consumatore (il beneficiario) genera più ricavi – più un’organizzazione non profit risponde a un bisogno più cresce la domanda di servizi e, di conseguenza, si generano più costi.

Il beneficiario delle attività delle organizzazioni non profit non coincide quasi mai con l’acquirente – o comunque questo contribuisce solo in minima parte al prezzo del servizio; in questo modo si crea un disallineamento tra i ricavi generati e il costo del servizio stesso.

Da qui la necessità di azioni di fundraising, ossia di «attività ed iniziative poste in essere dalle organizzazioni al fine di finanziare le proprie attività di interesse generale, anche attraverso la richiesta a terzi di lasciti, donazioni e contributi di natura non corrispettiva» (come recita l’articolo 7 del Dlgs 117 del 2017, «Codice del Terzo Settore»).

La crisi sanitaria, e in particolare i periodi di lockdown che hanno portato alla chiusura di molte attività e all’impossibilità per molte organizzazioni (come quelle operanti nel settore della cultura, dell’istruzione o dell’assistenza) di portare avanti le attività istituzionali, ha messo ancor di più in luce l’importanza di donazioni e attività di raccolta fondi quali elementi necessari per garantire la sostenibilità delle organizzazioni non profit, assicurando l’entrata di risorse integrative – economiche o in natura.

Ma il fundraising non integra semplicemente la sostenibilità, è la linfa di cui un’organizzazione non profit si nutre.

Soprattutto nella prima parte dell’emergenza sanitaria abbiamo assistito ad una vera e propria “maratona della generosità” che ha coinvolto cittadini e imprese in primis.

Una situazione che, da un lato, ha fatto emergere un’attitudine al dono da parte del popolo italiano, ma che dall’altro potrebbe portare con sé un pericolo sottile, quello di indurre a pensare che la donatività sia un fatto eccezionale, declinando il principio del dono esclusivamente sull’asse del dare – ossia, donare a chi si trova nel bisogno (come scrisse Stefano Zamagni, nell’articolo “Il dono nell’era 4.0”, pubblicato su Vita Bookazine #1 nel 2019).

La donazione tuttavia non è mai un fatto unilaterale, ma uno scambio sociale complesso che produce benefici non soltanto per chi riceve (l’organizzazione), ma soprattutto per chi dona, come argomenta Pier Luigi Sacco nel libro «Il fundraising per la cultura» (Booklet Milano, Meltemi Express, 2006).

Il dono è molto di più di un flusso (la donazione), ma una forma di esperienza non strumentale dell’altro. Si basa sullo scambio di beni relazionali, ossia di beni la cui utilità per chi li consuma dipende, oltre che dalle caratteristiche intrinseche e oggettive dei beni stessi, dalle modalità di fruizione con altri soggetti.

Non è solo una privazione di risorse, ma un’esperienza di senso in cui un’organizzazione e il proprio donatore condividono una prospettiva comune e attraverso cui il donatore si lascia coinvolgere nel perseguimento di una missione e di una buona causa che lo gratificano, che lo appassionano, che lo cambiano.

L’obiettivo di coloro che fanno fundraising è, quindi, impegnarsi per rendere sempre più evidente il valore sociale del dono e offrire alle persone delle occasioni reali di coinvolgimento, a tal punto che queste mettono a disposizione parte delle loro risorse affinché ciò a cui tengono esista.

La consapevolezza di questa distinzione tra dono e donazione è centrale in un’epoca in cui le piattaforme tecnologiche che si ispirano a paradigmi “peer to peer” sono in grado di costruire, con una precisione incredibile, interazioni strumentali orientate a ottenere donazioni, senza curarsi del dono, ossia della relazione.

Una relazione che deve essere nutrita e coltivata nel tempo, mettendo il donatore – il suo valore, i suoi desiderata e i suoi comportamenti – al centro. È per questo indispensabile orientare gli strumenti di comunicazione e di raccolta fondi a una continua interazione con il donatore, affinché sia coinvolto e ascoltato, e possa partecipare al perseguimento della mission dell’organizzazione e delle cause che più gli stanno a cuore, secondo le proprie disponibilità.

Ogni organizzazione del Terzo settore, a prescindere dalla sua dimensione, dalla forma giuridica, dal grado di trasformazione digitale o dagli obiettivi di raccolta fondi prefissati nel proprio piano strategico, fonda la propria identità ed esistenza nel rapporto con i propri stakeholder, implementando strumenti che gli permettano di comunicare con loro, di tenere traccia di ogni contatto e di ogni informazione utile a instaurare relazioni di lungo periodo.

Alla base delle strategie e degli strumenti di raccolta fondi vi è un database, uno strumento in grado di raccogliere tutti i dati, qualitativi e quantitativi, relativi al patrimonio relazionale dell’organizzazione, il patrimonio più importante di cui un’organizzazione dispone.

In conclusione, utilizzare strumenti donativi non significa solamente strutturare processi di co-produzione di soluzioni finanziarie e di sostenibilità, ma soprattutto creare fiducia e capitale sociale nei territori.

Donare significa, quindi, alimentare un nuovo paradigma di sviluppo dal basso, capace di generare iniziative che, diversamente, non potrebbero esistere.

Il senso, e al contempo la più grande innovazione del fundraising, consiste nel tenere insieme beneficiario, donatore e società, diventando – al di là delle singole “buone cause” da sostenere – uno strumento per la generazione di benessere.

Articolo tratto dalla Guida “Non Profit” de Il Sole 24 Ore.

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