L’evoluzione della piramide del fundraising

La celebre “piramide” su cui abbiamo costruito la teoria e la pratica del fundraising ha un peso sempre minore. Sebbene rimanga una teoria rilevante, appare sempre più distante dalla realtà. Non dico che sia morta, ma sta diventando un concetto quasi archeologico.

Oggi i donatori accedono da molteplici punti della “piramide”, poiché sono cambiate profondamente le motivazioni, i canali di accesso e il contesto di riferimento.

Questa trasformazione ha avuto un impatto significativo sui tradizionali meccanismi di fidelizzazione, che risultano sempre meno efficaci e sempre più costosi.

Il percorso che trasforma una donazione occasionale in una scelta consapevole e continuativa non è più lineare e deve confrontarsi con fattori esogeni e complessità sempre maggiori.

Assistiamo infatti a una destrutturazione delle strategie tradizionali di gestione della relazione con i donatori, con un ingresso sempre più rilevante di stimoli emozionali, valoriali ed esperienziali inediti.

In passato, le persone donavano per sostenere una “buona causa” che le aveva toccate in vari modi, ma che riguardava principalmente altri; oggi, invece, queste cause entrano prepotentemente nelle nostre vite, intersecandosi con la nostra identità e le nostre esperienze quotidiane.

Di conseguenza, anche la sollecitazione all’azione donativa è cambiata. L’urgenza rimane un fattore rilevante, ma diventa cruciale il “dove” e il “come” si risponde a un bisogno attraverso una donazione.

In questo scenario, che interpella l’intera comunità professionale dei fundraiser, emergono due temi cruciali: la strategia di people raising e la funzione di community engagement.

Per quanto riguarda il primo punto, coinvolgere sostenitori e volontari sta diventando sempre più rilevante e complesso allo stesso tempo. Il tema non si risolve nel semplice contatto e nell’attivazione, ma diventa necessario metterli al centro, riconoscendoli come soggetti in grado di dare espressività al cambiamento.

Dobbiamo offrire strumenti di conoscenza e condividere informazioni affinché possano utilizzarle in prima persona e attivarsi.

La preoccupazione fondamentale delle nostre organizzazioni dovrebbe essere quella di popolarsi di persone in grado di testimoniare una buona causa: se ci dotiamo di strumenti ma ci svuotiamo di persone che “ci credono”, abbiamo un problema enorme.

Il secondo aspetto riguarda quella che amo definire come la “territorializzazione delle buone cause“. Non è certo una novità, ma oggi la dimensione territoriale, intesa come sistema relazionale e non soltanto come geografia o perimetro giuridico, è ciò che fa la differenza.

La dimensione territoriale è il contesto in cui si costruisce l‘urgenza e la rilevanza della donazione. La causa diventa “buona” non solo se risponde a un bisogno, ma se risponde alla domanda del territorio in cui quel bisogno emerge. Questa prospettiva fa percepire una buona causa come realmente significativa.

La conseguenza di ciò è che una campagna non può limitarsi a “profilare” donatori o stakeholder, ma deve ingaggiare un'”ecologia” di istituzioni, con le imprese for profit in primis, al fine di costruire una proposta di valore che sia comunitariamente desiderabile.

Fonte: VITA


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