Cosa ci sta insegnando il Coronavirus

L’emergenza non è solo il tempo della resilienza, ma anche quello in cui si inizia a coltivare il cambiamento.

Si capisce che siamo di fronte a qualcosa di nuovo, qualcosa che ancora non si intravede solo perché viviamo ancora la fase acuta dell’emergenza sanitaria che ha colpito il nostro paese. Scrivo a meno di 15 ore dall’annuncio fatto dal Presidente del Consiglio che definisce regole molto stringenti per gli spostamenti, prolunga la chiusura delle scuole fino al 3 aprile e di fatto chiede a chi può (perché c’è anche chi non può…) di #stareacasa.

Stare a casa, stare fermi e vedere intorno a te il mondo che chiede a gran voce di fermarsi è una cosa impensabile fino a pochi mesi fa. Lo slogan dell’“Italia che non si ferma mai” è momentaneamente evaporato, cosi come l’ideologia che vede nell’accelerazione un valore in sé. Siamo così atterrati in una dimensione inattesa.

Sono giorni questi in cui c’è il tempo per riflettere sul “da farsi”, riprendendo in mano programmi non solo per ri-scadenziarli, ma per capire se son ancora adeguati ad una realtà che da un lato chiede di tornare alla “normalità”, ma che dall’altro si preannuncia già profondamente trasformata.

Una trasformazione non appena rinvenibile nel cambiamento del contesto ma auspicabilmente anche nei comportamenti e nei giudizi di valore delle persone.

Lo “tzunami” che sta colpendo il nostro paese ed il mondo intero, ci ha reso più fragili, indebolendo contemporaneamente “la certezza” di ciò che possediamo (salute e famiglia, lavoro, dei nostri progetti), la possibilità della prossimità (fisica) e la partecipazione ai luoghi.

E’ dentro questo “isolamento” impensabile per i nostri tradizionali ritmi di vita, che può fiorire una domanda sul futuro che, a mio avviso, non può che essere inesorabilmente segnata da una discontinuità profonda.

Siamo ancora dentro un’emergenza che non ha visto il suo picco e già si sente “qua e là” la voce di chi esorta tutti a fare sacrifici per poi “riprendere” la corsa più veloce di prima, per recuperare il tempo perso: uno “stop and go” direbbero nel mondo delle Formula Uno.

Lecito è il desiderio di una pronta ripresa, ma oltre ad essere coscienti che il percorso non sarà così facile e breve, abbiamo il dovere di avanzare consapevoli della straordinarietà del momento.

Questa crisi ha infatti colpito contemporaneamente “domanda”, “offerta” e fiducia.

Nel corso della storia abbiamo visto molte crisi che si sono scaricate sulla domanda (come la crisi petrolifera), oppure sull’offerta (come nel caso della crisi finanziaria) ma mai abbiamo avuto una convergenza di questo tipo. E’ una situazione “da economia di guerra” dove la ripartenza postula la ricostruzione, ossia la fatica e la responsabilità di tornare ad investire, ad immaginarsi un futuro buono.

Non occorre aspettare la fine di questo periodo per scorgere segnali di futuro, ma guardare diversamente ciò che già sta accadendo. I segnali sono deboli ma ci sono e indicano una nuova strada da percorre.

Tutto quello che stiamo sperimentando in questi giorni drammatici è per certi versi un apprendimento e una palestra d’innovazione sociale che sta potenziando le nostre capacità di ingaggiare l’intelligenza collettiva, ridisegnando il lavoro, la cura e l’educazione.

Un potenziamento delle nostre capacità e delle nostre competenze, un ampliamento dello spettro delle opzioni conosciute. Molto di ciò che prima era solo oggetto di conversazione oggi è diventato esperienza.

Ci è apparso evidente cosa sia concretamente il Bene Comune e come questo passi dalla convergenza e responsabilità “di tutti”, abbiamo finalmente capito la positività ed il valore abilitante della tecnologia, abbiamo compreso quanto impatto sulla nostra vita avere un welfare universalistico e quanto sia colpevole non scandalizzarsi di fronte a 120 miliardi all’anno di evasione, abbiamo capito che i modelli organizzativi gerarchici sono impresentabili di fronte alle sfide della modernità …. ed infine che non si può essere felici da soli.

Il mondo è irreversibilmente aperto e interconnesso e proprio per questo chiede a tutti noi di aumentare la qualità della nostra interdipendenza e il grado di cooperazione. Lo chiede alle istituzioni internazionali (in primis l’Europa) chiamata a ridefinire i “parametri” di un progetto comune che non può reggersi appena su una moneta, alla politica chiamata a recuperare autorevolezza e a non cedere alla tentazione del corto-termismo, alle imprese chiamate a ridefinire la propria value-chain incorporando dosi massicce di conoscenza, territorio e socialità ed infine al Terzo Settore chiamato ad un nuovo ciclo di riformismo sociale ed economico.

Il tutto dentro una nuova visione di sviluppo che riconosca “le aspirazioni dei giovani” ed “i luoghi” (partendo dalle fabbriche fino ad arrivare agli spazi rigenerati dalla cultura) come punto di ripartenza, per disegnare un’etica e politiche che siano all’altezza dei nostri desideri e delle sfide della contemporaneità.

Articolo pubblicato su Il Sole 24 Ore

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