Come rendere il patrimonio culturale italiano, il potenziale del nostro Paese, un asset economico, in chiave di marketing territoriale e di fundraising? Come fare ricorso ai finanziatori d’oltreoceano? Sfatiamo tre falsi miti sulle fondazioni grant-making U.S.A. Ma attenzione: «Do your homework and everyone will benefit!». Fate i compiti a casa prima di presentare un progetto
Per la sostenibilità delle istituzioni culturali, lo sguardo oggi deve essere strabico: sempre più attenzione all’engagement delle comunità locali e disinvoltura nel muoversi sulle opportunità che si aprono a livello internazionale. Iniziamo la nostra riflessione dalle fondazioni USA, sfatando tre miti, o tre alibi al mancato coinvolgimento.
Il primo mito da sfatare riguarda i destinatari dei grant. Le fondazioni americane finanziano le organizzazioni che godono dello status giuridico non profit secondo la legge Usa, identificato dalla 501c3. Ma non solo. Moltissime sono quelle che erogano fondi a livello internazionale attraverso meccanismi di fiscal sponsorship.
Se è vero che la maggior parte di queste finanzia organizzazioni che operano nei Paesi in via di sviluppo, ve ne sono altre che hanno interesse a realizzare la propria mission anche in Europa. Un esempio è la Annenberg Foundation, che negli ultimi tre anni ha finanziato fondazioni culturali come Palazzo Strozzi e l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia.
Chi volesse indagare dove e come le fondazioni operano, può facilmente consultare database on line come quello realizzato dal Foundation Center. Ad esempio selezionando il settore di intervento «arts and culture» in Italia, emerge che il nostro Paese ha beneficiato di oltre 7 milioni di dollari negli ultimi 5 anni, erogati da 17 fondazioni diverse.
Le fondazioni americane sono numerose e di varie tipologia: family, community, operating e agiscono in diversi settori filantropici. L’elemento che le accomuna è che tutte cercano associazioni i cui progetti contribuiscano alla realizzazione della propria mission.
Sembra scontato, ma è un approccio che differisce molto da quello europeo. Le fondazioni americane considerano il non profit come un braccio operativo e da ciò ne consegue che desiderano essere coinvolte, anzi lo pretendono.
L’approccio alla filantropia americana deve partire, quindi, da questo assunto. Il fundraiser difficilmente troverà un bando da esaminare o un formulario da scandagliare, quello che potrà fare è individuare quelle fondazioni che condividono gli obiettivi e le finalità della propria organizzazione e/o progetto.
Non a caso, gli americani suggeriscono ai grantseeker «Do your homework and everyone will benefit!», ossia fate i compiti a casa prima di presentare una proposta. Una frase che si può interpretare con: trova la fondazione giusta, la fondazione che ha bisogno di voi per realizzare la sua mission, quella che vede in voi un’opportunità e non un intestatario di un bonifico.
Sembra assurdo, ma una parte importante del lavoro di un programme officer di una fondazione americana è quello di rispondere alle telefonate e alle e-mail delle associazioni non profit . Ciò accade perché le fondazioni considerano decisivo creare un contatto personale che permetta di conoscere l’organizzazione che richiede il sostegno, approfondire le attività e verificare l’aderenza della mission dell’organizzane alla filosofia della fondazione[i]. La fluidità nella lingua inglese per sostenere i progetti è quindi condizione indispensabile ed affatto scontata per le istituzioni culturali del nostro Paese.
Va chiarito che creare relazioni non vuol dire necessariamente conoscere personalmente qualcuno all’interno del board della fondazione. Significa, piuttosto, essere pronti a chiamare, fare domande e a rispondere e fornire chiarimenti. In un continuo scambio.
Il resto si impara. Il primo contatto, in genere, si stabilisce inviando una letter of inquiry, ossia una presentazione efficace e coincisa della propria organizzazione e del progetto. Per predisporre questo tipo di documentazione sono necessarie alcune competenze tecniche che un grant writer deve possedere e che si possono acquisire in corsi come quello organizzato da The Fund Raising School.
Una volta acquisiti questi strumenti operativi, la parte più complessa consiste nel cambiare approccio al modo di pensare la relazione per considerare le fondazioni internazionali – non solo quelle americane – dei partner del sistema culturale italiano, non solo dei finanziatori. Uno sforzo che può essere ben ripagato poiché l’opportunità esiste ed è consistente, basta vedere quante sono le associazioni filantropiche americane che operano a favore del patrimonio culturale italiano: l’arte, l’opera, le tradizioni, la storia sono tutti settori della cultura italiana che hanno grande appeal sulla filantropia americana. Un veloce sguardo a questo settore, e immediatamente si incrociano nomi quali l’American Friends of Rossini Opera Festival, l’American Friends of Florence e ancora l’American Friends of the Uffizi Gallery, ossia tutte associazioni che operano nel fundraising per il restauro e per la conservazione delle opere d’arte cittadine e dei capolavori italiani[ii].
La mappa degli stakeholder di una ONP evolve con l’evolvere dello scenario globale, e i fundraiser devono imparare a cogliere anche le opportunità offerte a livello internazionale. Lo sguardo al mercato americano è un inizio, ma è piuttosto evidente che ci si debba preparare anche a guardare alle nuove economie, come quelle asiatiche e sudamericane, dove il settore filantropico, pur con grandi differenze, sta crescendo velocemente e manifesta interesse nei confronti di progetti dal forte valore sociale e culturale.
Quella di lavorare su scala internazionale è, quindi, un’ulteriore competenza richiesta alla figura del fundraiser, nonché una sfida collegata alla rapida crescita dalla competizione che i nuovi professionisti del fundraising si trovano a vivere[iii].
NOTE
Martina Bacigalupi terrà il corso Fundraising con le Fondazioni Internazionali il 18 novembre a Bologna.