Non c’è mercato senza dono

Perché è tornato di centrale rilevanza parlare della cultura e della prassi del dono nell’odierna società post-industriale? Perché l’agire donativo è oggi sotto attacco da un duplice fronte, quello dei neoliberisti e quello dei neostatalisti, sebbene con intenti affatto diversi.

I primi si appellano all’estensione massima possibile delle pratiche di tipo filantropico per sostenere le ragioni del “conservatorismo compassionevole” e ciò al fine di assicurare quei livelli minimi di servizi sociali ai segmenti deboli e “scartati” della popolazione che lo smantellamento del welfare da essi invocato lascerebbe altrimenti senza assistenza alcuna. Ma che non sia questo il senso del dono, ci viene dalla considerazione che l’attenzione ai portatoridi bisogni non è oggettuale, ma personale. L’umiliazione di essere considerati “oggetti” sia pure di filantropia o di compassione è il limite grave della concezione neo-liberista.

Non diverso è l’attacco che viene alla logica del dono dalla concezione neostatalista. Presupponendo una forte solidarietà dei cittadini per la realizzazione dei diritti di cittadinanza, lo Stato rende obbligatorio il finanziamento della spesa sociale. In tal modo, però, esso spiazza il principio di gratuità, negando in pratica, a livello di discorso pubblico, ogni spazio a principi che siano diversi da quello di solidarietà.

Ma una società che elogia a parole l’azione gratuita e poi non ne riconosce il valore nei luoghi più disparati del bisogno, entra, prima o poi, in contraddizione con sé stessa.

Se si ammette che il dono svolge una funzione profetica o — come è stato detto — porta con sé una “benedizione nascosta” e poi non si consente che questa funzione giochi un ruolo nella sfera pubblica, perché a tutto e a tutti deve pensare il solo Stato, è chiaro che quella virtù civile per eccellenza che è lo spirito del dono non potrà che registrare una lenta atrofia. L’assistenza per via esclusivamente statuale tende a produrre soggetti bensì assistiti ma non rispettati, perché essa non riesce ad evitare la trappola della “dipendenza riprodotta”. È veramente singolare che non si riesca a comprendere come la posizione neostatalista sia vicina a quella neoliberista per quanto attiene la identificazione dello spazio entro il quale collocare la gratuità. Entrambe le matrici di pensiero, infatti, relegano la gratuità nella sfera privata, espellendola da quella pubblica.

La sfida che occorre raccogliere è quella di battersi per restituire il principio del dono alla sfera pubblica.

Il dono come gratuità, affermando il primato della relazione interpersonale sul suo esonero, del legame intersoggettivo su quanto viene donato, deve poter trovare spazio di espressione ovunque, in qualunque ambito dell’agire umano, ivi compresa l’economia. Si tratta allora di pensare la gratuità, come cifra della condizione umana e quindi di vedere nell’esercizio del dono il presupposto indispensabile affinché Stato e mercato possano funzionare avendo di mira il bene comune.

Senza pratiche estese di dono si potrà anche avere un mercato efficiente ed uno Stato autorevole (e perfino giusto), ma di certo le persone non saranno aiutate a realizzare la gioia di vivere; a risolvere quel “disagio di civiltà” di cui ha parlato Freud nel suo saggio famoso. Perché efficienza e giustizia, anche se unite, non bastano ad assicurare la felicità delle persone. Non è difficile darsene conto solo che si consideri che accanto ai beni di giustizia ci sono i beni di gratuità e che non è pienamente umana quella società nella quale ci si accontenta dei soli beni di giustizia.

Qual è la differenza? I beni di giustizia sono quelli che nascono da un dovere (legale o civico); i beni di gratuità sono quelli che discendono da una ob-ligatio. Sono beni cioè che derivano dal riconoscimento che io sono legato ad un altro, che, in un certo senso, è parte costitutiva di me. È il riconoscimento di una mutua ligatio tra persone a fondare l’ ob-ligatio.

Pertanto, mentre per difendere un diritto si può, e si deve, ricorrere alla legge, si adempie ad un’obbligazione per via di reciprocità. Ecco perché la logica della gratuità non può essere semplicisticamente ridotta ad una dimensione puramente etica; la gratuità infatti non è una virtù etica. La giustizia, come già Platone insegnava, è una virtù etica, e tutti concordiamo sull’importanza della giustizia; la gratuità riguarda piuttosto la dimensione sovra-etica dell’agire umano perché la sua logica è la sovrabbondanza, mentre quella della giustizia è la logica dell’equivalenza.

Oggi sappiamo che una società per ben funzionare e per progredire ha bisogno che anche all’interno della stessa sfera economica ci siano soggetti, che capiscano cosa sono i beni di gratuità.

Per concludere. In contesti quali gli attuali in cui sono di gran lunga prevalenti prassi economiche fondate sul principio dello scambio di equivalenti finalizzate al perseguimento del self-interest, cosa può rendere manifesta la possibilità di un agire donativo capace di generare risultati positivi tali da invertire le tendenze in atto?

La presenza nell’area del mercato di imprese civili che, operando nel modo che è loro proprio, finiscono con il contagiare le imprese acivili.

Ad una condizione ciò può attuarsi. Che si riesca a superare la contrapposizione tra interesse proprio e interesse per gli altri, tra egoismo e altruismo. È questa dicotomia, figlia della tradizione di pensiero individualista, a non consentirci di afferrare ciò che costituisce il nostro bene.

La vita virtuosa è la vita migliore non solo per gli altri — come vorrebbero le tante teorie dell’altruismo — ma anche per se stessi. È in ciò il significato profondo della nozione di bene comune, il quale non è riducibile alla somma dei beni individuali. Questo è piuttosto il bene totale. Il bene comune è il bene dello stesso essere in comune; cioè il bene di essere inseriti in strutture di azione comune. Si ricordi che mentre pubblico è contrario di privato, comune è contrario di proprio. Al tempo stesso, però, il bene comune non è dissociabile del bene individuale. Il bene del singolo, infatti, non scompare all’interno di una grandezza quale è il bene collettivo.

Articolo tratto dal numero di dicembre di VITA.

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