Il dono nell’era 4.0

Il grande tema del dono si collega, oggi, a quello altrettanto fondamentale della responsabilità. Quando nulla assicura più a priori la possibilità di vivere insieme, è a una nozione rafforzata di responsabilità che bisogna fare ricorso, perché il rapporto con l’altro non sia affidato unicamente alla variabilità delle preferenze individuali o all’arbitrio della sopraffazione.

Responsabilità significa, letteralmente, capacità di risposta e questo ci indica che siamo di fronte ad una nozione intrinsecamente relazionale, perché postula in modo costitutivo la dimensione della risposta.

L’atto del rispondere, infatti, rinvia necessariamente alla dualità fra chi dà e chi riceve risposta e al loro rapporto. Ma responsabilità, dal latino res-pondus, significa anche portare il peso delle cose, delle scelte effettuate. Non solamente si risponde “a”, ma anche “di”.

Se “rispondere a” significa riconoscere il legame che gli altri ci costituiscono e ci fanno esistere almeno quanto la nostra individualità, “rispondere di” vuol dire invece portare nel rapporto quella unicità e differenza che ci fa diversi dagli altri.

L’interpretazione tradizionale e ormai insufficiente di responsabilità la identifica con il dare conto, rendere ragione (accountability) di ciò che un soggetto, autonomo e libero, produce o pone in essere. Tale nozione di responsabilità postula dunque la capacità di un agente di essere causa dei suoi atti e in quanto tale di essere tenuto a “pagare” per le conseguenze negative che ne derivano.

Nel modello tradizionale, dunque, la responsabilità riposa tutta sul legame tra un soggetto e la sua azione.

Ma da qualche tempo ha iniziato a prendere forma un’accezione di responsabilità che la colloca al di là del principio del libero arbitrio e della sola sfera della soggettività, per porla in funzione della vita, per fondare un impegno che vincoli nel mondo. Ciò sta avvenendo sull’onda della presa d’atto di quello che le nuove tecnologie della quarta rivoluzione industriale stanno facendo emergere.

Ecco perché l’esperienza della responsabilità non può esaurirsi nella semplice accountability.

È rimasta giustamente celebre l’affermazione di M.L. King secondo cui «può darsi che non siate responsabili per la situazione in cui vi trovate, ma lo diventerete se non fate nulla per cambiarla».

Il punto focale della responsabilità è diventato la vulnerabilità e la fragilità degli esseri investiti dagli effetti di azioni, individuali e collettive.

Nel passato, anche recente, questo problema si poneva solo nei confronti di altri esseri umani nettamente individuabili e si risolveva in una logica contrattualistica mediante la negoziazione degli interessi, temperata da una compensazione redistributiva. Ma oggi di fronte alla portata cosmica del mercato e della nuova tecnoscienza, le nostre azioni collettive possono turbare le stesse prospettive di sopravvivenza nonché le stesse basi biologiche della vita. In condizioni del genere, il non danneggiare gli altri — che per l’etica liberale è l’unico limite alla libertà personale — non è più sufficiente: il problema centrale, infatti, è quello di stabilire di quali esseri devo prendermi cura.

Quando si parla di responsabilità oggettiva, cioè di responsabilità legata al compimento di certe attività indipendentemente dalla colpa dell’autore dell’azione, si vuol dire che gli interessi del danneggiato sono talmente importanti da non poter essere subordinati alla problematica della colpa. Non basta più misurare la colpevolezza dell’agente.

Occorre piuttosto che entro il discorso pubblico si faccia spazio la nozione del prendersi cura. (“I care” aveva scritto don Milani). Si è responsabili non solo per quel che si fa, ma anche per quello che non si fa, pur potendolo fare.

In uno dei suoi libri più noti ( Il club dei mestieri stravaganti, Editrice Guerrino Leardini, 2013) G.K. Chesterton crea un personaggio, Basil Grant, la cui vicenda umana illustra con rara efficacia espressiva la differenza tra la concezione di responsabilità come imputabilità e quella di responsabilità come prendersi cura. Basil è un giudice costretto a lasciare l’incarico perché accusato di aver perso il senno. Egli infatti condanna la gente per delitti «di cui mai si era sentito parlare in un’aula di giustizia, come egoismo illimitato, mancanza di senso dell’umorismo e deliberata indulgenza alla morbosità». Queste le parole con le quali il personaggio giustifica il suo modo eccentrico di amministrare la giustizia: «Scoprii che come giudice non potevo essere di alcuna utilità. E allora decisi di offrire i miei servigi a titolo personale, come un giudice puramente morale, chiamato a dirimere contenziosi puramente morali. La gente si presentava davanti a me per essere giudicata non per inezie pratiche (che in realtà non interessano a nessuno), come essere in possesso di un cane senza averne la licenza. I miei criminali erano giudicati per quegli illeciti che rendono davvero impossibile la vita sociale. Venivano processati davanti a me per egoismo, per insopportabile orgoglio, per maldicenza, per taccagneria nei confronti degli amici e dei dipendenti. Evidentemente questo tribunale non aveva nessuno strumento di coercizione. L’applicazione della pena dipendeva totalmente dall’onore delle signore e dei gentiluomini coinvolti nel caso, compresi i colpevoli. Ma se sapeste con quale precisione i nostri ordini sono sempre stati eseguiti vi meravigliereste».

Il paradosso di Chesterton ci fa comprendere perché, nell’attuale stagione, la pratica del dono come gratuità è ancora più essenziale che non nel passato, anche recente.

Invero, non basta più declinare il principio del dono sull’asse del dare — donare a chi si trova nel bisogno. Occorre portarsi sulla dimensione dell’essere, perché l’agire donativo mira al compimento della persona che dona, alla sua fioritura (l’eudaimonia aristotelica) e perciò alla sua generatività.

Prendere atto che il capitalismo rischia oggi la paralisi o, peggio, il collasso, perché sta diventando più capitalistico di quanto gli sia utile — perché nega nei fatti il principio del dono, limitandosi a favorire gesti di donazione, cioè di filantropia — è il primo passo per avviare un progetto credibile di trasformazione dell’attuale ordine sociale. L’appello accorato che ci viene dai tanti – individui e soggetti di Terzo settore — che in forme e modi diversi vanno insistendo perché alla categoria del dono come gratuità venga riconosciuta piena cittadinanza nella sfera pubblica è come quella “voce” che costringe a sciogliere le cime e avventurarsi in mare aperto: solo così si può vincere la violenza conservatrice dell’esistente.

L’articolo è stato pubblicato su VITA Bookazine #1

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